"Human flow", del regista e militante cinese Ai Weiwei, trapiantato a Berlino, è l'unico documentario in corsa a Venezia per il Leone d'oro. Ed è un pugno nello stomaco. È una mappatura dettagliata, asciutta e agghiacciante, degli esodi biblici in atto sul nostro pianeta, realizzata filmando "dal di dentro" i campi profughi e le "onde anomale" di intere popolazioni costrette a lasciare, per guerra, fame e persecuzioni, la propria terra e le proprie case. Qualche emergenza ci è prossima e familiare, moltissime no. Non è come assemblare i reportage degli infiniti network che hanno documentato la grande fuga dalle zone calde del mondo. Contro le regole del documentario classico, Ai Weiwei non è solo testimone, è partecipe, condivide le marce disumane dei rifugiati, si improvvisa cuoco, barbiere, fotografo di strada, scherza e consola. Ha i suoi cameramen, ma riprende anche col suo cellulare. E sono immagini che ti costringono a vivere quello che vedi. Tutto viene implicitamente evocato: il vergognoso saccheggio Nord-Sud, il debito estero come arma, gli accordi commerciali predatori, una finanza senza controlli. Ma "Human Flow" si astiene da pistolotti e commenti. Bastano le cifre, i titoli dei giornali, i resoconti scarni dei responsabili dei soccorsi e di pochi dignitari "di buona volontà". Il film è indirizzato, sostiene il regista, "a tutti quelli che hanno la fortuna di vivere in pace. Perché anche la loro pace è una situazione temporanea". È vero e tremendo. Siamo in grado di dare risposte e soluzioni? Chi può ancora parlare di uguaglianza e solidarietà?
Dal punto di vista artistico le inquadrature sono la parte più riuscita di un documentario che, per impatto visivo, è paragonabile a certe fotografie di Sebastiao Salgado che raccontavano i formicai umani creati dalla miseria e dalla guerra. Condivisione, umanità, sono parole d’ordine che risaltano comunque dal lavoro di Ai, che fluisce con un ritmo ben calibrato, che alterna luoghi e volti, tragedie e momenti di alleggerimento, ponendo l’attenzione su un tema centrale del problema, spesso dimenticato dal nostro sguardo eurocentrico: l’universalità della questione, la sua dimensione mondiale che coinvolge trasversalmente etnie, religioni, generazioni, classi sociali.